TW: Oggi, in entrambe le rubriche si parlerà di morte.
Se per te è un tema sensibile, saltaci a piè pari. Ci vediamo la settimana prossima.
Sono nata Strega
Carlotta
Avevo cinque, forse sei anni, e già allora la mia vocazione era evidente: sarei diventata una strega. Non una di quelle da fiaba, con il cappello a punta e il naso adunco – troppo teatrale. No, una strega autentica. All'epoca suscitavo lo sgomento materno esternando un interesse smisurato per serpenti, scarafaggi, ranocchie e gatti. Per completare il quadro, il felino che la mia famiglia aveva in quel periodo – per quanto si possano possedere i gatti – si chiamava Nerone, e mi sembra superfluo precisare il perché.
Un altro essere che esercitava su di me un fascino irresistibile era il pipistrello, babastrejo1, come lo chiamava mia nonna. Li osservavo rapita mentre, al crepuscolo, danzavano nel cielo: creature perfette, sospese tra il mistero e la decomposizione imminente. Un giorno il miracolo avvenne: uno di loro precipitò nel nostro cortile, morto, esanime. Un dono degli dèi.
Lo trovai io. E, senza dire nulla a nessuno, mi dedicai al cadavere con una devozione che definirei scientifica. Dopo una ventina di minuti passati a giocare con la carcassa, fui scoperta dalla genitrice, che ovviamente non condivise il mio entusiasmo. Mi strappò il regalo del cielo e, con disgusto, lo gettò nell’umido. Perle ai porci, pensai.
Era palese una cosa: il ribrezzo per la morte si impara, perché a cinque anni non era un tema che sembrava sfiorarmi. Forse il concetto stesso di morte non mi era noto. Alla fine, esistevo solo io e la mia famiglia, come prolungamento di me stessa. Con un metodo che oggi definirei montessoriano, compresi quel giorno che le carcasse non si toccano, a meno che non siano cibo, e che i defunti vanno lasciati riposare ai margini delle città, sotto terra, lontani dai vivi.
Le mie esperienze con il trapasso, per mia immensa fortuna, sono rimaste poche. Persi cani, gatti e uccellini domestici che amavo molto. Umani la cui assenza, per quanto dolorosa, fu mitigata dal ricordo di abbondanti anni terreni. Altre morti, invece, mi privarono di punti cardinali.
Ricordo che la prima assenza precoce fu quella di una mia mentore, Federica, che mi dava ripetizioni di latino. Detto così, potrebbe sembrare una relazione superficiale tra insegnate e alunna, ma è a diciassette anni che si scelgono i propri riferimenti, e una donna che amava più le lingue morte che le vive non poteva che meritare la mia illogica devozione adolescenziale. Dieci anni dopo conservo ancora le poche cose che avevo di lei, penso alle conversazioni che avremmo potuto avere e mi dispiaccio per tutti i libri che non ha potuto leggere.
Quando lei morì, io non lo realizzai.
Passò del tempo. Poi, un giorno, il mio gatto Brioche cacciò un pettirosso. Lo strappai dalle sue minuscole fauci e lo tenni tra le mani. Il cuore dell’uccellino pulsò isterico, per poi fermarsi. Espirò. Fu il mio secondo incontro con la morte alata.
Ma questa volta contavo quindici giri in più attorno al sole, e la morte non era più un giocattolo da studiare, bensì un enigma da comprendere. Com’era possibile che qualcosa di tanto presente da poter muovere un corpo intero potesse scomparire in un attimo così breve?
Tra le mani avevo un mezzo spento, senza autista.
Solo anni dopo avrei compreso che la morte è, prima di tutto, una questione di riconoscimento. Lo capii grazie a una puntata di Midnight Gospel, Turtles of Eclipse2, che mi aprì una nuova prospettiva. Mi interessai alla tanatoestetica3, al fascino metodico dei rituali di accettazione. Lessi il motto della disciplina:
"Il nostro lavoro è il riconoscimento della grandezza di una vita vissuta."
Quella frase si incise nella mia memoria. Mi parve riduttivo attribuirla solo agli operatori funebri: non è forse il compito di tutti i vivi riconoscere la grandezza di chi ci ha lasciati?
Alla fine, esistiamo solo nelle connessioni che creiamo e nell’amore che lasciamo dietro di noi. E se l’eredità donataci è grandiosa, il debito da pagare per averla ricevuta sarà quello di riconoscerla e celebrarla, nella gioia, nella disperazione, nei brindisi tra gli affetti più cari, secondo i modi che ci sembrano più consoni.
In fondo, non c'è strega più autentica di quella che sa onorare i propri fantasmi.
Un altro animale in lutto
Andrea
Nel 2018, al largo delle coste di Vancouver, un’orca è stata avvistata mentre trascinava con sé il corpo senza vita del figlio4. Lo ha fatto per diciassette giorni, nuotando per circa 1600km. Le immagini hanno fatto il giro del mondo, tra lo stupore e l’incredulità di chi ancora si ostina a credere che l’amore e il dolore siano una prerogativa umana.
Non è un caso isolato. Gli elefanti visitano i resti dei propri familiari scomparsi, accarezzandoli, fermandosi in silenzio accanto alle ossa come in un rituale. Gli scimpanzé mostrano segni di lutto, si isolano, cambiano comportamento, alcune madri trasportano i corpi dei loro piccoli per giorni, settimane, persino mesi. I corvi tornano nei luoghi dove i loro compagni sono morti.
La morte non è solo un evento biologico, ma sociale. Non lo è solo per noi, ma per ogni specie che vive in comunità, che crea legami, che costruisce relazioni. Pensare che il lutto, l’affetto e la memoria siano caratteristiche esclusive dell’essere umano è un’illusione antropocentrica che non regge di fronte all’evidenza naturale.
Carl Safina, che sarà presto protagonista di questa rubrica, usa un termine che non mette tutti d’accordo per parlare di questo tipo di fenomeno. La parola è cultura. Eppure, cos’altro è la capacità di tramandare comportamenti, abitudini e significati? Se una comunità di orche tramanda per secoli una strategia di caccia specifica, se gli elefanti insegnano ai piccoli quali piante evitare, se gli scimpanzé sviluppano strumenti e metodi unici a seconda della loro regione, che cos’è se non cultura?
Ma c’è un’idea ancora più dura a morire, un dogma che resiste a ogni prova contraria: l’idea che l’essere umano sia su un gradino superiore, che il nostro "peso morale" sia maggiore, che esista una scala che misura il valore della vita e, guarda caso, ci mette sempre in cima. Lo si giustifica con la nostra intelligenza, il linguaggio, la capacità di astrarre concetti, il rispetto per i morti.
Naturalmente, sono tutte stronzate.
Non c’è assolutamente nulla che ci separa dal resto della natura. Ogni argomento costruito per dimostrare la nostra unicità crolla non appena smettiamo di guardarci allo specchio e iniziamo a guardare il mondo per quello che è. Non siamo né superiori né diversi. Siamo animali tra gli animali, parte di un ecosistema che continuiamo a distruggere con la presunzione di esserne i padroni.
Il dolore di un’orca che porta il figlio morto per diciassette giorni vale quanto il nostro. Siamo solo un’altra specie che ama, soffre e piange i suoi morti. Siamo solo un altro animale in lutto.
E per quanto avrei voluto chiudere con quest’ultima frase ad effetto, c’è un aggiornamento che penso sia importante dare: lo scorso 20 dicembre, Tahlequa, l’orca in questione, è stata avvistata5 insieme ai suoi due figli, ora parte di una famiglia, di una comunità.
L’immagine più interessante che vedrai oggi:
Avvistamento canetto della settimana:
Risultato sondaggio settimana scorsa:
Sondaggio della settimana:
Babastrejo: pipistrello in dialetto veneto.
Midnight Gospel. 2020. “Turtles of the Eclipse.” Stagione 1, episodio 8. Diretto da Pendleton Ward. Netflix, 20 aprile 2020.
Tanatoestetica: disciplina che comprende varie pratiche rivolte alla pulizia e toelettatura della salma, oltre che alla sua vestizione secondo i desideri dei familiari.
BBC News. 2018. “Toronto Shooting: Faisal Hussain Named as Gunman.” BBC News, August 13, 2018. https://www.bbc.com/news/world-us-canada-45162826.
Razek, Raja, e Amanda Jackson. 2024. "L'orca che ha trasportato il suo cucciolo morto per 17 giorni ora ha un nuovo piccolo." CNN, 24 dicembre 2024. https://edition.cnn.com/2024/12/24/us/tahlequah-orca-calf/index.html.